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Jung, Carl Gustav.

Medico e psichiatra svizzero. Fondatore della scuola di psicologia analitica. Laureatosi in Medicina a Basilea, nel 1900 divenne assistente di Bleuler all'ospedale psichiatrico di Zurigo, della cui università divenne libero docente nel 1905. In quegli anni si interessò agli studi di psicologia e al concetto di inconscio, che lo portarono a dedicarsi al metodo delle associazioni verbali. Nel 1907 iniziò la sua collaborazione con Freud, ma già cinque anni più tardi il suo pensiero cominciava a divergere dalla dottrina del caposcuola viennese. La separazione definitiva avvenne nel 1913 e J., per differenziare anche nel nome la propria dottrina dalla psicoanalisi freudiana, definì il proprio metodo di ricerca "psicologia complessa". Nel 1920, con la sua opera capitale Tipi psicologici, egli definiva alcuni tipi fondamentali della personalità umana, rintracciandoli nelle più diverse individualità storiche e nelle più svariate culture. A conferma delle sue tesi compì esplorazioni etnico-psicologiche che lo portarono dal Nuovo Messico sino al Kenya e in varie località dell'Oriente, inducendolo a interessarsi delle filosofie orientali e di religioni comparate, così da condurre studi in collaborazione con sinologi come Wilhelm e mitologi come Kerényi. Insegnò al politecnico di Zurigo (1935-42) e all'università di Basilea (1944-46), occupandosi poi dell'Istituto di psicologia, intitolato al suo nome, fondato a Zurigo nel 1948. Della psicoanalisi freudiana accettò il primo assunto, cioè riconobbe l'importanza che ha l'inconscio nella vita psichica. Ma la sua formazione psicologica di tipo tradizionale non gli consentì di aderire completamente alla teoria freudiana dell'inconscio dinamico e dello sviluppo dell'Io, alla quale sostituì una dottrina dell'"inconscio personale", non generato da rimozioni ma legato costituzionalmente all'esperienza collettiva. Ossia, mentre per Freud l'inconscio è dovuto in massima parte alle rimozioni, per J. esso è la parte della vita psichica che non è pienamente adattata alla realtà. L'inconscio è quindi il serbatoio primitivo di tutte le attività psichiche e nella sua arcaica unità riunisce il buono e il cattivo. Sin dal 1907, cioè all'inizio della sua collaborazione con Freud, si dedicò allo studio della personalità che investe la libido verso l'interno, ostacolando i rapporti sociali. Egli definì col termine libido l'energia psichica generale da cui scaturiscono tutte le opere umane, mentre il termine fu usato da Freud con un significato molto più circoscritto, per indicare uno degli istinti fondamentali. Distinse poi i tipi psicologici in "introvertiti" (individui la cui principale direzione degli interessi è verso la propria vita intima) ed "estrovertiti" (individui la cui principale direzione degli interessi è verso il mondo esterno), secondo una classificazione dualistica che ottenne successo soprattutto fuori dall'ambiente scientifico. Quanto alla nevrosi, mentre per Freud essa deriva dal conflitto fra gli istinti dell'individuo e le coercizioni provenienti dall'ambiente esterno, per J. essa ha radici in un conflitto del tutto interno all'individuo, derivato da un mancato accordo tra conscio e inconscio che tenderebbero sempre a compensarsi: ciò che è debole nell'uno è forte nell'altro e viceversa. Ossia l'individuo che è timido nelle sue manifestazioni conscie è sfacciato nel suo inconscio e così ogni esasperazione in un campo ha la sua contropartita nell'altro campo. Di qui l'elaborazione della teoria della bisessualità individuale. Secondo J., infatti, ogni individuo esprimerebbe coscientemente se stesso negli atteggiamenti del proprio sesso e inconsciamente gli atteggiamenti del sesso opposto. Quanto poi ai sogni, l'individuo, oltre che a manifestare in essi il proprio stato psichico, rivelerebbe esigenze alimentate da tradizioni secolari che si manifestano negli archetipi o immagini collettive ispiratrici dei miti, dell'arte e delle religioni di tutti i tempi e di tutti i Paesi. Per quanto molte delle accuse di misticismo, eclettismo, scarsa scientificità rivolte a J. siano eccessive, spesso non a torto è stato fatto osservare che la sua dottrina ha un carattere più filosofico che psicologico e trova le sue parentele più prossime fra le discipline morali che fra le scienze sperimentali. Comunque, notevole è stato il suo contributo e quello della scuola che a lui fa capo agli sviluppi della psicologia e della terapia analitica. Fra le sue opere ricordiamo: La libido, simboli e trasformazioni (1912); I rapporti fra l'Io e l'inconscio (1928); Il problema dell'anima nel tempo presente (1931); Realtà dell'anima (1933); Psicologia ed educazione (1946); La psicologia del transfert (1946); Sulla psicologia dell'inconscio (1948) (Kesswil 1875 - Küsnacht, Zurigo 1961). ║ Scuola junghiana: corrente psicoterapica facente capo alla teoria e ai metodi di cura di J. e i cui aderenti si autodefiniscono psicologi analitici, e non psicoanalisti. Rilevanti sono infatti le differenze tra i terapisti junghiani e gli psicoanalisti di scuola freudiana, differenze che, per gran parte, sono le stesse che distinsero le premesse teoriche e le tecniche intermedie dei due capiscuola. Sin dai tempi della sua collaborazione con Freud, J., partendo da una diversa concezione della libido (energia psichica generale fonte di ogni tipo di comportamento), pur dimostrandosi convinto dell'efficacia della tecnica di analisi freudiana, la considerava non ugualmente efficace per tutti i tipi di pazienti, in quanto tendeva, secondo lui, ad accentrarsi in maniera eccessiva sulle questioni sessuali, così da influenzare in tal senso i pazienti, col rischio di trascurare altre componenti determinanti della nevrosi. Pertanto, per non cozzare contro lo scoglio del sesso, egli evitava, a differenza di Freud, di indurre i pazienti a ricordare gli avvenimenti del proprio sviluppo sessuale infantile, pur non escludendo le questioni sessuali e, anzi, dovendo constatare la tendenza da parte di molti pazienti a scivolare spontaneamente su questo argomento. Secondo J., ciò poteva spiegarsi nello stesso modo dell'effetto terapeutico della confessione di qualunque segreto opprimente, segreto che, in questo caso, era di tipo sessuale. Tuttavia, il fatto di non insistere come Freud per indurre il paziente a ricordare gli avvenimenti, anche più penosi, del suo sviluppo sessuale infantile, fece sì che i suoi metodi risultassero particolarmente ben accetti a certi neurotici che potevano così evitare la discussione delle loro difficoltà sessuali. Il secondo fattore che contribuì a differenziare la teoria junghiana da quella psicoanalitica classica fu l'interesse di J. per la mitologia. Occupandosi di pazienti psicotici, egli notò che molti dei loro deliri e delle loro allucinazioni contenevano elementi riferibili a vecchi miti spesso del tutto sconosciuti alle persone che li evocavano. Sulla base di tali osservazioni, tra il 1913 e il 1917, J. apportò rilevanti modifiche al concetto freudiano di inconscio. Infatti, approfondendo le proprie conoscenze mitologiche ed antropologiche, era giunto alla convinzione che l'inconscio contenesse anche cose che non potevano essere riferite a particolari esperienze dell'individuo e neppure alle esperienze delle generazioni immediatamente antecedenti. Inoltre, egli rilevò che non solo i deliri e le allucinazioni degli psicotici, ma anche i sogni delle persone normali rappresentano spesso miti vecchi di migliaia di anni. Pertanto J. giunse a dividere l'inconscio in due parti: "personale" e "collettivo", distinguendo poi gli individui in "estroversi" ed "introversi " e quindi elaborando una classificazione in quattro "tipi funzionali": sensitivo, intuitivo, sentimentale (affettivo), intellettuale, ciascuno dei quali classificabile a sua volta come introverso o estroverso. Secondo J., a qualunque tipo psicologico l'individuo appartenga contiene in sé anche le funzioni degli altri tipi, funzioni che, insieme coi desideri repressi, costituiscono la parte più importante dell'inconscio personale. Egli riteneva che l'inconscio dell'individuo di sesso maschile contenesse un elemento completamente femminile, l'anima, mentre quello della donna contenesse un elemento maschile, l'animus. Perciò, uno degli obiettivi della sua tecnica terapeutica era quello di indurre i pazienti a dare libero sfogo, a sviluppare tutte le funzioni psicologiche. Quanto ai procedimenti terapeutici, J. non considerò la propria tecnica antitetica a quella freudiana; ma, ovviamente, essa non mancò di essere profondamente influenzata dalla sua vasta cultura mitologica e antropologica. Inoltre, non trascurabile fu l'influenza dell'ambiente della psicologia accademica cui J. apparteneva. Un'influenza, questa, visibile, soprattutto nei suoi test dell'associazione verbale e nella classificazione dei "tipi psicologici". Per meglio applicare le sue tecniche egli distinse i pazienti in alcuni tipi: quelli che "desiderano avere solo dei buoni consigli, secondo il più comune buon senso", e in questi casi è spesso sufficiente una sola seduta, per venire a capo della loro situazione psichica; quelli ai quali "basta una completa confessione o abreazione"; quelli affetti da "neurosi più gravi che richiedono in genere un'analisi per rimuovere i loro sintomi". J. ritiene che, applicando una terapia analitica, si debba assolutamente tener conto che ogni individuo è unico per se stesso, per cui sostiene che, per avere risultati soddisfacenti, è necessario che lo psicoterapista limiti il proprio intervento "a un procedimento puramente dialettico, adottando un atteggiamento che non segua metodi prestabiliti". Pertanto, la sua tecnica è più flessibile di quella freudiana e, inoltre, cerca di adattarsi alle condizioni particolari di ogni paziente. Secondo la teoria junghiana, i pazienti in genere presentano i seguenti disturbi: bisogno di sfogare i propri desideri e ricordi repressi; incapacità di accettare e di adattare il proprio modo di vivere al modo di pensare e di comportarsi suggerito dagli "archetipi" (sdoppiamento di personalità); insufficiente attenzione posta alle funzioni e agli aspetti nascosti della loro personalità, per cui l'introverso soffre per la mancanza di estroversione, ecc. Come rimedio a tali disturbi egli impiegò tecniche che solo in parte si rifacevano a quelle freudiana dell'anamnesi, consistente nel risalire al passato (secondo J., non si può sperare di trovare nell'infanzia di un individuo i fattori che spieghino i suoi sintomi); dell'interpretazione, cioè della spiegazione al paziente dei fattori inconsci che operano in lui; dell'interpretazione dei sogni, considerata da J. come lo strumento tecnico più importante dell'analisi; dell'associazione libera, di cui J. si servì adottando il metodo dell'associazione verbale, servendosi invece assai meno di Freud della vera e propria associazione libera. Oltre che ad apportare modifiche alle tecniche intermedie freudiane, compresa quella del transfert, J. introdusse anche una tecnica completamente nuova, successivamente adottata, oltre che dai suoi seguaci anche da quelli di Freud, consistente nel far dipingere ai pazienti i soggetti dei loro sogni e delle loro fantasticherie. Quasi tutti i terapisti junghiani si oppongono all'uso dell'ipnosi o di farmaci, anche come facilitanti per l'applicazione delle loro tecniche intermedie e, proseguendo sulla via tracciata dal loro caposcuola, discorrono coi loro pazienti di tutto quello che sta loro succedendo, soffermandosi in modo particolare sul presente, mentre i freudiani cercano di risalire alla vita passata del paziente. Si è parlato spesso di uno spiritualismo junghiano, in contrapposizione a un materialismo freudiano. In realtà, tale contrapposizione è inesatta, anche se è vero che J., come rileva Nigel Walker, staccandosi da Freud per sfuggire all'importanza che questi dava alla sessualità, ha precostituito un terreno psicoanalitico per coloro che cercano di sfuggire all'approccio biologico, deterministico e ateistico di Freud che, volutamente, circoscrisse il proprio campo di indagine agli aspetti più sgradevoli della personalità, evitando ogni giudizio di carattere morale. Inoltre, la concezione freudiana può considerarsi di tipo "egalitario", in quanto considera il bambino appena nato dotato semplicemente di un gruppo di istinti. Pertanto lo psicoanalista freudiano tende a considerare ogni tipo di neurosi causato, in massima parte, da ciò che è avvenuto dopo la nascita dell'individuo, attribuendo quindi la neurosi, sostanzialmente, ad eventi esterni. Per lo junghiano, invece, l'individuo nasce non solo con una certa naturale disposizione per l'introversione e l'estroversione e con tendenze rientranti in una delle quattro tipologie psicologiche descritte da J., ma anche legato a certi modi di pensare, di sentire e di comportarsi che, ereditati da lontani antenati, influiscono sulla psiche dell'individuo. Da ciò consegue, in ultima analisi, che la dottrina junghiana è più pessimista di quella freudiana.